Transgender, il movimento chiede il diritto alle generalità “congruenti”
In occasione della quindicesima giornata in memoria delle vittime di transfobia, il movimento transgender chiede l’approvazione del ddl 405, che prevede la rimozione dell’iter chirurgico dai requisisti per il cambio di genere. A Torino, più di trecento persone in marcia per le vie del centro. Ma sono le identità ad essere difformi o la burocrazia che è sadicamente inadeguata? Potrà sembrare pura accademia, ma proprio su questo oggi si gioca il destino di milioni di transgender in tutto il mondo. Secondo le statistiche, nella sola Italia ne vivono almeno cinquantamila: si tratta in realtà di una stima al ribasso, che tiene conto soltanto di quanti, in seguito a un intervento, hanno chiesto a un tribunale la rettifica dell’attribuzione di genere. Agli altri tocca convivere con il cosiddetto documento “non congruente”; “che, in termini pratici, si traduce in una vita di inferno” spiega Antonia Monopoli dello sportello trans ‘Ala’ di Milano. “Vai a votare e invece che al reparto femminile ti spediscono a quello maschile. Gli uffici di collocamento e le agenzie interinali fanno fatica a presentarti alle aziende, così come quelle immobiliari non riescono a trovarti una casa. E alla fine ti ritrovi con la prostituzione come unica opzione, rinforzando ulteriormente lo stereotipo che ci vorrebbe tutte sul marciapiede”.
È per questo che sabato 22 novembre nella quindicesima giornata per la memoria delle vittime di transfobia è stata declinata dalla comunità transgender come un’occasione per chiedere l’approvazione del disegno di legge 405, che rimuove l’iter chirurgico dai requisiti per il cambio di genere. “La maggior parte dei problemi che ci vengono segnalati riporta a questa questione” continua Monopoli. “Se una trans ci chiede aiuto per uscire dal giro della prostituzione, facciamo fatica a trovarle un lavoro perché sui suoi documenti c’è il nome di un uomo. Idem se per proteggerla dobbiamo cercarle una nuova sistemazione. E chi un lavoro ce l’ha spesso deve fare i conti con le vessazioni, come i superiori che ti costringono a utilizzare il bagno degli uomini”.
Anche Monopoli racconta di essere transitata per le vie della prostituzione, prima di uscirne grazie al supporto dell’associazionismo transgender milanese. Sabato pomeriggio 22 novembre era a Torino, scelta quest’anno come città pilota per la manifestazione: insieme ad altre trecento e più persone ha sfilato fino a piazza Castello, dove una delegazione di attiviste ha acceso, come ogni anno, una fila di candele a formare la scritta “Tdor“, acronimo di Transgender day of remebrance. La prima volta accadde ad Allston, nel Massachussets: era il novembre del 1998 e in 250 si riunirono in una marcia spontanea in memoria di Rita Hester, una transessuale afroamericana che era appena stata uccisa con venti coltellate al petto. Il Tdor nel frattempo è divenuto una ricorrenza internazionale, celebrata in duecento paesi nel mondo; ma se si escludono nazioni come l’India e il Bangladesh, che hanno appena introdotto una terza definizione di genere, quasi ovunque la comunità trans è ferma all’abc dei diritti civili. Secondo il Dsm (manuale diagnostico dei disturbi mentali), ancora oggi trasngenderismo è sinonimo di “disturbo di identità di genere” (dig), una patologia che causerebbe “un disagio clinico persistente o problemi nell’area occupazionale, della socialità o in altre importanti aree funzionali”.
Di problemi occupazionali, in effetti, ne sa qualcosa Anita Palladino, presidente dell’Associazione trans Napoli. Per oltre vent’anni è stata un appuntato della Guardia di finanza, finché nel 2011, a 44 anni, ha deciso di venire allo scoperto. “Per me – ricorda – i problemi sul lavoro sono iniziati allora; ed è stato proprio il Dsm a portarmeli. Con i colleghi non ne ho mai avuti: tutti sapevano che mi piacevano gli uomini, perché nascondere una cosa del genere, in un corpo militare, è pura follia. Io nel corpo ho avuto grandi amici: ci punzecchiavamo a vicenda, c’era un gran cameratismo. Finché nel 2011 ho iniziato a sentire il bisogno di liberare sul serio la mia anima. Ed è a quel punto che tutto è precipitato”. Quando espone la sua situazione ai vertici del corpo, Anita si vede recapitare una diagnosi di Dig e viene dichiarata inabile al lavoro. “Mi hanno riconosciuto una residua capacità lavorativa – ricorda – offrendomi la ricollocazione ‘a impegno fisico moderato’ in un ufficio del Ministero delle finanze. È la stessa procedura prevista per gli invalidi; ma io sarei in grado di tornare di pattuglia anche domani ed è esattamente quello che intendo fare.Per questo ho fatto ricorso al Tar; e quando me lo hanno rigettato mi sono rivolta al Consiglio di stato, che a breve dovrà pronunciarsi sulla vicenda”.
Nel frattempo, è dalle pubbliche amministrazioni che qualcosa potrebbe iniziare a muoversi: Ilda Curti, assessore alle Pari opportunità della città di Torino, spiega che il Comune avrebbe appena accolto una proposta del coordinamento Torino Pride, in modo da dare ai dipendenti pubblici la possibilità di declinare il genere, su badge e cartellini, secondo il proprio sentire. “La legge sulla trasparenza delle pubbliche amministrazioni – spiega Curti – impone a chi lavora a contatto con il pubblico di avere il proprio nome ben visibile su un cartellino. Quello che stiamo studiando è un semplice accorgimento per evitar loro il disagio di esibire un nome maschile su un corpo femminile, o viceversa. Anche l’Università di Torino si è già mossa in questo senso con gli studenti. Noi in realtà non sappiamo ancora se qualcuno dei nostri dipendenti abbia questo tipo di necessità; ma offrir loro un’opzione è un semplice gesto di civiltà”.
Fonte dell’articolo: Redattore Sociale