«SONO UN CAMALEONTE». I DIVERSI COLORI DI ANTONIA
di Giulia Menegardo
La protagonista del cortometraggio di Dimitri Singenberger si racconta. Un gioco di riflessi che diventa autoritratto.
Ho incontrato Antonia nel suo ufficio allo Sportello Trans ALA di Milano. Mi ha accolta con la tranquillità di chi è a proprio agio e desidera farti sentire al sicuro. La realtà corrisponde all’immagine del film che porta il suo nome, Antonia. Una donna trans sorridente, dalla stretta di mano delicata ma decisa, consapevole di non poter essere completamente donna ma determinata a non voler dimenticare nessuna fase del suo vissuto. «Sono nata con un corpo maschile e ora sono una donna trans, ma quello che ero ha arricchito quello che sono». Dimitri assiste a una storia che si racconta con naturalezza mentre si svolge. L’occhio indagatore della telecamera riporta fedelmente episodi quotidiani della vita di Antonia, si fa largo tra ciò che è pubblico e trova un passaggio per un mondo privato. Il punto di vista cambia in corso d’opera, da osservatore diventa partecipe, in un continuo gioco di sguardi sulla vita e la persona di Antonia ma anche su di sé e le proprie reazioni. Le riprese oggettive ci coinvolgono nel film come interlocutori, allo stesso tempo qualcosa ci ricorda che questa non è finzione ma realtà.
Come vi siete incontrati tu e Dimitri e come è nata l’idea di questo progetto?
Mi ha contattato lui. L’idea iniziale era di fare dei ritratti di persone trans ma no ve ne erano disposte a farsi coinvolgere. Allora siamo rimasti noi due, di conseguenza è nato un rapporto di fiducia che è poi diventato amicizia.
A un certo punto c’è una sorta di inversione di ruoli, in un certo senso diventi tu la regista che indaga le sue sensazioni. Era previsto dal principio?
No. Molte decisioni sono state prese mentre giravamo. All’inizio non voleva, poi si è coinvolto e in certi momenti si è fatto riprendere. Da parte sua c’era curiosità ma era titubante e timido, ho cercato di fare un po’ da guida, di spronarlo. In certi momenti ho anche osato un po’, per vedere le sue reazioni.
Nel film dici che “il maschile rimane a livello mentale”, cosa intendi?
Le persone che nascono maschi sono impregnate del maschilismo che caratterizza la nostra cultura. La transizione avvicina al genere che si desidera, togliendo il maschile che vediamo allo specchio, ma qualcosa qui dentro rimane (si tocca la fronte, nda). Ci vediamo sempre con lo sguardo del maschio. Molte donne transessuali rincorrono modelli estetici passando per la chirurgia perché l’idea è che al maschio piace questo. Facciamo di tutto per avvicinarci al genere femminile ma allo specchio ci guardiamo sempre con l’occhio del maschio biologico eterosessuale. Osservo molto chi mi si avvicina, cerco di capire se sono io a interessargli o un ideale di donna a cui assomiglio. Mi accorgo subito se devo difendermi o posso lasciarmi andare.
Il contesto in cui vivi come ti ha accolta?
Inizialmente ci sono state delle ostilità. In un ambiente popolare come il mio, c’è poca informazione e quel che non si conosce intimorisce, si tende a respingerlo o a giudicarlo. Per alcuni era impensabile che una trans potesse avere una casa popolare. Inoltre il transgender è molto spesso associato alla prostituzione. Col tempo si sono accorti che ero sempre gentile e rispettosa, con alcuni ho costruito dei bei rapporti di pacifica convivenza e amicizia.
Un progetto come quello di Dimitri, strutturato su larga scala, sarebbe utile per sensibilizzare le persone sul tema della transessualità e abbattere alcuni preconcetti?
Quando ho visto il film finito non mi aspettavo di trovarci alcune scene. Forse in certi passaggi mi sono esposta troppo, ma ho voluto essere spontanea, sperando che questa spontaneità possa essere apprezzata. Non so quanto le persone transessuali siano disposte a fare lo stesso. C’è una volontà di cancellazione di quello che si era prima dell’operazione, la vecchia identità. Io sono consapevole di ciò che sono e lo accetto. Mi definisco una donna transgender perché non voglio negare il mio percorso. Anche io ho delle maschere ma le tolgo e le rimetto a seconda della situazione in cui mi trovo.
Il supporto psicologico di accompagnamento non affronta anche questa aspetto?
Il realtà è solo per rielaborare l’identità e preparare la persona agli interventi. La psichiatra delle strutture ospedaliere, una volta al mese, segue il paziente nell’indagine della propria disforia di genere, per capire se il soggetto è pronto agli interventi distruttivi e ricostruttivi. Non è un vero supporto psicologico che invece c’è ma esterno e solo se richiesto. Molti non vogliono avere niente a che fare con gli psicologi. Il transessualismo viene considerato come una malattia e si pensa che l’operazione sia il mezzo per guarirsi. Non è vero che basta questo, bisogna ricostruire la propria identità. Spesso il passaggio è troppo semplificato anche dai trans stessi. Mettersi in discussione non è semplice, ci vogliono anni per raggiungere una consapevolezza. Quando mi è arrivato il documento con il cambio di nome ero felice. Ho messo un fiocco alla porta.
Nel film si vede un poster di Jessica Rabbit. Hai un modello di riferimento femminile reale?
Nicole Kidman. Le donne austere, le bellezze anni ‘50, donne in un certo senso antiche, di classe. Dita Von Teese. Oppure Charlize Theron. Le donne giunoniche che assomigliano un po’ a me anche nella fisionomia. Mi identifico in donne alla mia pari, non nella Barbie.
Intervista e foto realizzata da Giulia Menegardo per MFN – Daily (Cronache del Festival Mix Milano), realizzata qualche giorno prima della prima visione del documentario denominato Antonia realizzato da Dimitri Singenberger